“Non chiamatela pizza gourmet” – L’intervista a Franco Pepe
È una storia di sacrificio e di passione, di forza di volontà e determinazione. La storia di Franco Pepe travalica l’essenza di pizzaiolo migliore del mondo.
Franco Pepe è stato questo, è questo, ma non solo. Perché per diventare famoso in tutto il pianeta con un prodotto così tipico e imitato come la pizza ci vuole qualcosa in più, ci vuole quell’ingrediente segreto che ognuno deve trovare dentro di sé. Tenacia, coraggio, intraprendenza, “saper fare dell’uomo”, rispetto e ricerca sono gli ingredienti del successo di Franco Pepe, valori che spiccano dalle sue parole in occasione di un incontro che abbiamo avuto con lui presso la facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma. Sono questi i valori che più delineano la figura genuina che ritroviamo nelle vesti di maestro della pizza.
La stessa genuinità che trasmette nella sua pizza.
La sua storia, un assaggio
Sin da piccolo a contatto con il mondo della panificazione, Pepe se ne è allontanato decidendo di studiare Scienze Motorie, fino a diventare docente di educazione fisica. Solo nel 2012 è tornato ad esercitare la professione di famiglia, aprendo una sua pizzeria all’interno di un rudere a Caiazzo, Caserta, da lui stesso ristrutturato. In breve tempo ha saputo affermare le sue idee sull’evoluzione della pizza, (ri)creando e proponendo un prodotto che gli è valso premi e riconoscimenti unanimi da parte della critica. Oggi il suo ristorante, Pepe in Grani, è al primo posto nella classifica mondiale 50 Top Pizza.
Ultimo traguardo, la nomina a Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, che il Capo dello Stato Sergio Mattarella gli ha conferito lo scorso 2 giugno.
Ultimo capitolo di una storia iniziata anni fa in un piccolo borgo campano, una storia che ci ha raccontato di persona…
Dice spesso che ha intrapreso una gavetta molto lunga e ne sottolinea l’importanza. Cosa ricorda delle prime esperienze?
Nella mia storia tutto ha avuto un prezzo, anche la mia famiglia. Non lo racconto spesso ma, dopo aver fatto esperienza per anni vicino a mio padre, quando l’ho perso ho pianto e sofferto molte volte pensando di non fare più il pizzaiolo. Avrei voluto quasi provocarmi problemi alle mani per smettere di lavorare. Se nei momenti come quello superi le crisi, sei sulla strada giusta. Puoi cedere, gettare la spugna, o superare del tutto le difficoltà.
Come ha trovato la forza per superare quelle crisi?
Mi ha aiutato la responsabilità di portare avanti un percorso. Ovviamente il senso di responsabilità nasce sulla base dall’educazione ricevuta. Poi ha un certo peso la fiducia in sé stessi, anche se non è facile averla nei momenti peggiori.
Parlando del concetto d’identità, cosa può dire a proposito di suo figlio? è stato indirizzato verso una strada prestabilita oppure è libero di prendere le sue scelte anche se si allontanano dall’attività?
Stefano è stato libero fin da subito, penso sia un grave errore costringere un figlio ad intraprendere strade per le quali non si sente adeguato. Mio figlio è stato con me fin da subito, ora ha preso un periodo di pausa in cui si sta dedicando alla sua personale formazione nel settore del food & beverage, ma comunque è deciso a tornare con me. Auspico che mio figlio possa portare avanti ciò a cui ho dato vita, ma è necessario che lo faccia con la sua identità, così come io non ho fatto la pizza di mio padre lui dovrà fare la pizza di Stefano Pepe. Lui ha le caratteristiche di andare oltre la mia pizza, ha già creato due prodotti molto interessanti ma quando io sono nei paraggi lui non sperimenta, si cimenta nella sua creatività gastronomica solo quando sono lontano per i miei viaggi di lavoro.
_Lei punta molto sul tema carboidrati rapportato alla nutrizione, oggi gran parte della popolazione considera i carboidrati dei nemici, sostanze da evitare il più possibile. Lei cosa pensa di quest’attuale “ demonizzazione del carboidrato”? _
Rispondo con un esempio, molto spesso si sente parlare di “lunghe lievitazioni” in termini di benefici per la salute, ma è sbagliato, c’è una scorretta informazione. Per poter digerire bene occorre far fare la giusta lievitazione all’impasto, bisogna partire del presupposto che ogni farina necessita del proprio tempo nel processo di lievitazione. Generalmente è “il giusto” che va ricercato, dunque per rispondere alla tua domanda, noi dobbiamo assumere un corretto apporto di carboidrati giornaliero ed è questo il motivo per cui nel mio progetto ho incluso una biologa nutrizionista. Sono molti gli aspetti che determinano un prodotto buono a livello di salute alimentare, dunque mi posso ritenere soddisfatto quando ho riscontri positivi riguardo questi aspetto nutrizionali, sia da chi è nel settore che da chi non ne fa parte, i loro pareri sono una conferma sulla riuscita del nostro lavoro.
Per quanto riguarda invece l’aspetto della formazione, tra i futuri progetti è presente anche quello di una possibile scuola?
Quando non viaggio mi ritrovo a trascorrere in pizzeria quasi venti ore al giorno, attualmente il problema è il tempo. Dall’apertura di Grani di Pepe ho formato molti ragazzi, è stato un investimento per il quale non ho mai chiesto un guadagno economico, ma ho sempre preteso uno scambio reciproco: i ragazzi formati da me devono essere predisposti a seguirmi, aver voglia di lavorare e capacità di mettersi in gioco. Molti dei ragazzi che ho formato sono ancora con me, alla base di tutto ciò c’è confronto, condivisione, comprensione e rispetto, senza questi elementi non si può andare da nessuna parte.
Tornando al tema della sua famiglia, conserva il ricordo di un sapore particolarmente caro che la lega alla sua infanzia?
Certo, ricordo bene un sapore di quando ero bambino. Mia madre a volte si faceva dare la farina da mio padre e preparava una crema al limone con l’uovo. C’era dentro la buccia di limone, fantastica. È qualcosa che oggi mi rimane della mia infanzia. Tornavo a casa e mamma me la faceva trovare. In quegli anni era una ricetta economica, ma diventava un dolce per noi. Un sapore legato a papà è invece il calzone con la scarola, ingrediente alla base della mia pizza preferita. Anche se con le mie ricette ho dato tanto, questa rimane un punto fermo.
In un mondo, quello della cucina sempre più ricercata in cui la clientela punta su proposte gourmet, quale ruolo può ritagliarsi la pizza?
Il ruolo della pizza è importantissimo. Posso dire che da me vengono molti cuochi stellati. All’inizio io stesso ho frequentato le cucine di alcuni chef per cercare di apprendere. Oggi succede, a volte, il contrario. È venuto ad esempio lo chef di Bilbao Josean Alija, un ragazzo fantastico che per disgrazia è entrato in coma e ha perso la percezione del gusto e dell’olfatto. È rimasto talmente colpito che ha deciso di tornare da me a dicembre, quest’anno, per cucinare sulla mia pizza. Prima non avremmo mai immaginato che un cuoco stellato spagnolo ci chiedesse di fare un’esperienza del genere. L’anno scorso poi abbiamo organizzato serate con Nino di Costanzo, due stelle Michelin.
Potrei fare molti altri esempi, sono tantissimi gli chef che verranno da noi quest’anno e saranno tutti ospitati nel mio locale. Io mi sono adattato alla cucina dei grandi maestri, ma con un approccio diverso voglio lanciare una piccola provocazione: portare questi professionisti in pizzeria, con le difficoltà che può avere un pizzaiolo. Non è semplice per uno chef esprimersi attraverso la pizza.
Lei ha affermato che non ama il termine gourmet, in quanto la pizza dovrebbe rimanere qualcosa di “popolare”. Con Pepe in grani, però, siamo di fronte a un nuovo mondo di intendere la pizza. Pensa di poter essere un esempio?
Sicuramente arrivano molti pizzaioli che mi considerano un modello di ispirazione, un punto di riferimento, e mi chiedono consigli. Il primo consiglio che posso dare loro è quello di non copiare nessuno: né me, né altri esperti del settore. Ciò che deve emergere è la loro identità. Devono attingere tutto il possibile da chi ha più esperienza per sviluppare in seguito il loro prodotto. Chi riesce a dare la propria identità alla pizza alla fine risulta vincente. Come diceva anche il grande Gualtiero Marchesi, non bisogna mai limitarsi a copiare e imitare.
Lo chef Francesco Sposito ha omaggiato la sua Margherita Sbagliata con il Risopizza, che ricorda l’affumicatura tipica del cornicione…
Sposito è un mio amico. Sì, ha creato un piatto con i datterini essiccati. Una delle cose più belle, per me, è sapere di essere fonte di ispirazione per qualcun altro. A volte altri pizzaioli riproducono la Margherita Sbagliata e questo ci ha portato a creare un grande collage con le foto di tutte queste loro creazioni.
Per chiudere, ci anticipava che la sua pizza preferita da mangiare fosse quella con la scarola. C’è invece un tipo di pizza preferito da preparare o al quale è rimasto più affezionato?
Nella sua semplicità la Margherita Sbagliata, è una pizza che non tramonta mai ed è apprezzata anche dai grandi chef. Lo stesso Davide Scabin, assaggiandola, mi ha detto: “Ma che cosa hai combinato?”. Con 3 elementi a disposizione, gli stessi della margherita classica, siamo riusciti a darle una percezione diversa. Ho lavorato sulla tradizione ma dando una mia reinterpretazione.
Ultimamente poi ho ripescato la capricciosa: la propongo al cliente e lo faccio partecipare alla sua “creazione”, porto la base di una pizza con carcifini di Paestum, mozzarella e prosciutto cotto. Quando esce dal forno viene portata a tavola con i vari ingredienti e condimenti serviti separatamente, di modo che sia il cliente a comporla e condirla a seconda dei suoi gusti. Faccio partecipare il cliente, la sua creatività, in modo attivo. Questa pizza l’ho chiamata “Acquerello di Capricciosa”.
In collaborazione con Lucia Facchini e Maia Babolin
Cover ph: Brambilla – Serrani