Alla scoperta dell’acquacotta
“Acquacotta, che il pane spreca e la trippa abbotta”.
Con questo detto si sintetizza perfettamente, e in stretto dialetto dell’alto Lazio, lo scopo principale __di questo piatto. Acquacotta, appunto: una pietanza nata al solo scopo “riempitivo” che recupera il pane raffermo, inzuppato nel brodo, per saziare i contadini e le loro numerose famiglie.
Un piatto povero, di origini umilissime, destinato alla mera sussistenza grazie all’utilizzo di ingredienti di cui il contadino aveva a disposizione e che venivano raccolti in un’unica pietanza.
Così come per la carbonara, e una miriade di altre specialità gastronomiche del nostro Paese, non esiste un’unica ricetta, originale, dell’acquacotta. Stiamo parlando di un piatto tipico del centro Italia, in particolar modo dell’alto Lazio e della bassa Toscana (Maremma in particolare), tant’è che esistono almeno due macro versioni della ricetta dello stesso piatto: quella “alla viterbese” e, appunto, “alla maremmana”.
A seconda delle zone poi troveremo opinioni discordanti sulla vera preparazione del piatto. Di paese in paese, si sa, ci si imbatte in dichiarati quanto gelosi custodi della ricetta originaria, ma in questo pezzo andiamo ad approfondire la versione dell’acquacotta tipica del territorio viterbese dove, tra le alture del monte Cimino e le sponde del lago di Bolsena, oggi anche molti locali propongono questa specialità territoriale.
Stiamo parlando di una pietanza affermatasi tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, dall’origine contadina e mandriana (o “buttera”, come si dice da queste parti), e che ha avuto nelle immancabili nonne il vettore verso le generazioni più giovani, fino a diventare al giorno d’oggi protagonista anche di menu gourmet. Ma questo lo vedremo più avanti.
Per capire l’umile estrazione di questo piatto basta leggerne gli ingredienti che venivano cotti in calderoni più o meno grandi: erbe di campo, patate, cipolla e spicchi d’aglio, il tutto condito a fine cottura con dell’olio extra vergine di oliva prima dell’aggiunta del pane raffermo. Chi poteva permetterselo, poi, aggiungeva qualche uovo rotto direttamente nella zuppa in cottura a conferire per lo meno un minimo apporto di proteine e grassi (oltre che di gusto).
Sono però il pane, le patate e le erbe di campo gli ingredienti principali dell’acquacotta, zuppa di “recupero” di materie prime di facile reperimento per il contadino arricchita, nella maggior parte dei casi, da borragine, maggiorana, cicoria o mentuccia, a seconda della stagionalità e della disponibilità di ognuna di esse.
Uno dei riti più sentiti era quello dell’olio versato a fine cottura. Quando questa era ultimata infatti il “vergaro”, cioè il capo dei mandriani, colava l’olio dalla damigiana con un gesto che richiamava il segno della croce. Come ultima fase il travaso del brodo, con tutte le sue erbe, patate e uova, direttamente sul pane raffermo che, in questo modo, si sarebbe ammollato (come direbbero qui) dando ulteriore sostanza al piatto.
Ma come ha fatto una pietanza di origini tanto umili a diventare una proposta di ristoranti di alto livello? Ce lo spiega direttamente Danilo Ciavattini, tra gli chef cardine della cultura gastronomica viterbese, che proprio a Viterbo un paio d’anni fa ha aperto un ristorante che porta il suo nome. Una Stella Michelin e Due Forchette della Guida del Gambero Rosso, Danilo nel suo menu ha inserito appunto l’acquacotta, piatto che richiama le sue origini sorianesi (Soriano è un piccolo paese alle pendici del monte Cimino) e che propone, in chiave pop e modernizzata, ai suoi clienti.
“È un piatto della tradizione povera locale che ho voluto rivisitare in chiave gourmet. Non è un piatto che può essere soggetto a molte interpretazioni sia per ingredienti usati che per preparazione, non permette di muoverti molto”. Il concetto di territorialità, e della sua proposta al cliente che arriva da fuori, è al centro del pensiero gastronomico dello chef. “Per un turista che entra in una terra nuova il miglior modo possibile per capire quel territorio è mangiarne i piatti, che nascono in funzione di quella che è la zona d’origine. L’acquacotta ha una storia contadina ma la tradizione non deve essere considerata un vincolo che ti lega a determinate preparazioni, è solo il legame che ti conduce al territorio”.
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