I tatuaggi degli chef, quando la giacca nasconde un tattoo
È interessante quando due mondi apparentemente distanti hanno punti in comune, più punti in comune di quanto non pensassimo.
Prendiamo la cucina, sudore, fatica, creatività, gusto; prendiamo i tatuaggi, colore, precisione, attenzione e studio maniacale. Già da questa breve introduzione capiamo quanto queste due “materie” (che faticheremmo, in una prima analisi, a conciliare) possano condividere più di qualche aspetto.
Eppure un piatto e un tatuaggio hanno, per loro natura, un’essenza opposta.
Cosa c’è di più “temporaneo” di un piatto e del suo ciclo vitale di pochi minuti (che intercorrono tra preparazione e consumazione), in contrapposizione al tatuaggio, sinonimo di “eternità” e permanenza.
Fermiamoci però un attimo e ragioniamo più a fondo. I punti in comune tra i piatti (specialmente dell’alta ristorazione) e i tatuaggi sono tantissimi: il pensiero, il ragionamento, lo studio che porta alla creazione di un piatto è paragonabile a quello che si nasconde dietro un disegno, semplice o complesso che sia. La cura dei dettagli, l’attenzione al processo di realizzazione e, alla fine, la soddisfazione di veder completato qualcosa che dietro ha avuto ore di ragionamenti, tentativi e fatica.
Dietro a un piatto c’è spesso una storia, un racconto, proprio come dietro l’idea di un tatuaggio, molte volte simbolo di uno stato d’animo, di un momento della vita particolarmente segnante o di un’esperienza indimenticabile, indelebile nella mente così come sulla (o meglio, sotto) pelle. Il tatuaggio esprime una personalità, come un piatto, un tatuaggio esprime dei gusti, come un piatto. Un tatuaggio è arte, come sa esserlo un piatto.
Andiamo ancora più a fondo, entriamo letteralmente nelle cucine e conosciamo i protagonisti che dietro ai fornelli pensano, agiscono e creano. Molti di loro, infatti, sono anche dei grandi appassionati di tatuaggi. Degli chef, che al pubblico appaiono con le loro iconiche giacche, cosa conosciamo oltre alla loro cucina o ai piatti che hanno ideato?
Cosa si nasconde sotto quelle stesse giacche?
In questo viaggio tra chef, pizzaioli e pasticceri ho raccolto varie figure professionali che mi hanno mostrato, e testimoniato, come in molti casi nella cucina il tatuaggio non sia affatto un tabù. Anzi.
Melissa Dolci
Una delle prime a spiegarlo è Melissa Dolci, pasticcera (che vanta importanti esperienze romane a La Pergola e da Pipero) prossima a trasferirsi presso l’Heinz Beck Restaurant at Castello di Fighine. Melissa è un’ex allieva del corso di formazione professionale per chef del Gambero Rosso, esperienza che l’ha portata verso il mondo della pasticceria dopo che, all’esame pratico, preparò un dolce al piatto, “perché la mia natura è sempre stata quella di inventare e realizzare dolci” spiega.
“La pasticceria è creazione, colore, fantasia; un po’ come i tatuaggi. Credo che il tatuatore sia un artista tanto quanto un pasticcere” racconta Melissa, “perché entrambi devono creare, usare colori e fantasia! Trovo sia un lavoro bellissimo. Come il pasticcere si esprime attraverso un piatto, il tatuatore lo fa attraverso il tatuaggio”.
Melissa di tatuaggi ne ha sei e ce ne parla così: “Ho quattro disegni e due scritte. Sono una sognatrice e amo i cartoni Disney, infatti sul braccio ho Alice che mangia l’occhio di bue, uno dei miei dolci preferiti, e Chicco, la tazzina de La Bella e la Bestia. Sul costato ho una citazione della mamma di Cenerentola: “Have courage and be kind”, frase che rappresenta il mio modo di essere, coraggioso e gentile, sia nella vita che nel lavoro. Nella parte interna della caviglia ho una bottiglietta di vetro, ripiena di stelle e sogni, che ha una targhetta con scritto “dreams”. Il suo tappo di sughero è semi-aperto per dare modo loro di uscire e realizzarsi.”.
Tutti tatuaggi pensati e realizzati, senza un’attimo di esitazione: “Ho sempre fatto dei tatuaggi che mi riportassero ad un ricordo e al mio modo di essere, quindi non mi sarei potuta pentire. Un tatuaggio, se mi piace, o lo faccio subito oppure se ci penso troppo poi non lo faccio più. Credo che siano anche legati a uno stato d’animo, a un momento ed è anche questo il bello”.
Una passione condivisa con molti altri suoi colleghi: “Quasi tutti hanno più di un tatuaggio. Rappresentano il nostro modo di essere, i tatuaggi raccontano sempre qualcosa di te”.
Antonio Romano
Sì, perché il fenomeno dei tatuaggi non è così raro all’interno delle cucine, anche dell’alta ristorazione. La testimonianza di Antonio Romano, prossimo anche lui come Melissa a trasferirsi presso il ristorante di Beck a Fighine (e premiato nel 2019 dalla San Pellegrino con il Fine Dining Lovers Food for Thought Award), è emblematica. “Ho ventidue tatuaggi, ognuno di essi ha una storia. tra questi molti hanno legame con la cucina, che è la mia grande passione, il mio lavoro, mentre altri rappresentano stati d’animo di un determinato periodo”. Cinque di questi ventidue sono legati alla cucina, ma uno in particolare rispecchia la filosofia di Antonio: “Una semplice parola tatuata all’ interno del labbro, quindi nascosto, a differenza di tutti gli altri. Questa parola è TASTE, ovvero gusto. È per me una parola importante che cerco di portare nei miei piatti e di trasmettere al cliente”.
Antonio approfondisce questo pensiero: “Ultimamente siamo abituati a vedere piatti bellissimi, ben pensati, con tecniche di alto livello, le nuove tecnologie, e questa è sicuramente una cosa fantastica per noi cuochi. Non dobbiamo mai dimenticarci però che alla base di tutto ci deve essere il gusto, un concetto che non può passare in secondo piano“.
Una passione quella per i tattoo che non ha mai creato disagi lavorativi al giovane chef, come spiega lui stesso: “ Quando indosso la mia divisa sono veramente pochi quelli visibili.” Il concetto di tabù però, per Antonio, è superato, anche in cucina: “Penso che al giorno d’oggi il 90% dei colleghi abbia almeno un tatuaggio, è diventato un trend. Questo credo che derivi dal fatto che il tatuaggio ormai è stato sdoganato, non è più un tabù”. Pensiero comune di ogni persona tatuata è, appena concluso un disegno, di volerselo fare subito un altro. E Antonio, che non è da meno, già progetta il prossimo: “Sarà una spiga di grano. La scusa è che riguarda il mio lavoro, la verità è che mi piace”.
C’è chi come Antonio Romano ha iniziato a tatuarsi a 15 anni e non ha ancora smesso, chi invece come Luca Pezzetta si è “fermato” al primo tatuaggio, fatto ad appena 16 anni e “di nascosto, per non farlo vedere a mio padre” ci tiene a precisare con una risata.
Luca Pezzetta
Impegnato nelle cucine dell**‘Osteria Birra del Borgo**, e docente presso i corsi di formazione professionale del Gambero Rosso, Luca spiega la sua filosofia a riguardo. “Io ho un solo tatuaggio, sull’avrambraccio. Si tratta di un cuore con una fiamma con le 4 lettere dei membri della mia famiglia”.
Un errore di gioventù? “Non mi sono mai pentito, perché è comunque legato alla mia famiglia, ma è anche vero che non ho avuto la necessità di farne altri”. Il motivo lo spiega subito: “Ho sempre voluto impostare il mio lavoro sull’eleganza e credo che il tatuaggio può ancora far storcere il naso al cliente. Quando lavoro tento di coprirmelo il più possibile, perché temo il pregiudizio delle persone. In cucina come in sala, per me, l’importante è che un eventuale tatuaggio sia nascosto. Ho forse una mentalità vecchio stampo, ma riconosco che oggi molti chef mettono in mostra i loro tatuaggi e questo li aiuta anche ad avere maggiore impatto a livello comunicativo, anche grazie ai social network. Io ho deciso di utilizzare altri mezzi di comunicazione“.
Eugenio Boer
Trasferiamoci idealmente a Milano per l’ultima testimonianza. Siamo nella sale di Bu:r, il ristorante una Stella Michelin dell’italo olandese Eugenio Boer. Anelli, barba da hipster consumato, tatuaggi. Se non indossasse la tipica giacca lo chef potrebbe essere scambiato per il frontman di una rock band nordica. Niente chitarra, però, per lui che esegue i migliori assoli tra i fornelli. I tatuaggi, per Eugenio, sono davvero tanti, al punto che “Il conto l’ho perso tanto tempo fa…” racconta con un sorriso.
Anche in questo caso il primo risale all’età di 15 anni “stavo con mio padre, ero felicissimo” mentre l’ultimo è “vecchio” solo di qualche mese, fatto lo scorso anno assieme alla compagna Carlotta. Uno preferito? “Non c’è” racconta, “mi piacciono tutti e sono legati tutti a momenti particolari della mia vita.” La cucina, ovviamente, ha il suo posto anche sulla pelle di Eugenio: “Ho sull’avambraccio sinistro un gatto Maneki Neko, conosciuto di più come il gatto della fortuna. Un famoso tatuatore giapponese, Peco Matsuo, lo ha adattato ad una mia storia personale e lo ha legato con elementi appartenenti al mondo della cucina.” Problemi sul lavoro per i troppi tattoo? “No, mai. Forse il mio viso dai tratti olandesi ha sempre prevalso sui tatuaggi” ci spiega ridendo. Anche nel suo caso, poi, in cantiere c’è sempre il prossimo: “Ho sempre troppe idee che mi frullano per la testa. Mi piacerebbe continuare la mia collezione di tatuaggi, quello sì”.
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Articolo apparso precedentemente sul Gambero Rosso