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“Non abbiate paura dell’alta cucina”, parola di Oliver Glowig

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Ci sono delle sfumature che sanno di epicità nel racconto della storia di Oliver Glowig.

Non solo perché, e qui il collegamento arriva facilmente, ora si sta occupando anche delle cucine di Epos, ristorante situato a Monte Porzio Catone presso l’enoteca Poggio Le Volpi (dove guida, soprattutto, il più “pettinato” Barrique). La sfumatura epica nel racconto della carriera di Oliver Glowig sta nel suo lungo viaggio che, fino a oggi e dopo molte tappe, lo ha portato tra i colli romani e lo porterà chissà dove in futuro.

Cosa c’è, in fondo, di più epico del concetto del viaggio, inteso sia in senso metaforico di intima crescita personale che di percorso vero ed effettivo. Ne sa qualcosa Ulisse, che nel Mediterraneo ha vagato per 10 anni prima di tornare nella tua Itaca, o Enea che dopo la disfatta di Troia, e un lungo peregrinare, si è ritrovato in Italia.

Omero ha affidato al tema del viaggio una delle colonne portati dei suoi poemi, così come Oliver Glowig è diventato uno dei maggiori rappresentati della cucina contemporanea nel corso di un lungo percorso che dal suo Paese natio, la Germania, lo ha portato a Capri, poi di nuovo in patria, quindi una seconda volta nel Bel Paese, a Roma prima e a Monte Porzio Catone poi. Senza disdegnare qualche consulenza all’estero, tra cui Toronto, in Canada. Il tutto collezionando, nei vari ristoranti, un totale di sei stelle Michelin.

A Capri, in una delle sue prime esperienze nel nostro Paese, ebbe come mentore (altra figura che ricorre spesso nel racconto epico) Gualtiero Marchesi, sua guida e punto di riferimento nell’approccio alla cucina italiana..

Oliver, poi, ha proseguito da solo per la sua strada, distaccandosi dal Maestro e costruendosi una propria identità. Step fondamentale in un processo di crescita che per uno chef non deve mai arrestarsi.

Con Oliver Glowig ho avuto una piacevole chiacchierata nella sala di Barrique, dove mi ha raccontato la sua esperienza e il suo primo approccio con la cucina nostrana, le materie prime del Bel paese e come ci si senta a essere un ambasciatore del gusto della cucina italiana.

E, improvvisamente, ascoltando la sua storia, anche io mi sono sentito catapultato nel suo lungo viaggio…

Oliver Glowing: “Io, tedesco innamorato della cucina italiana”

Oliver, sei arrivato in Italia anche grazie a Marchesi. Poi esperienze a Capri e Roma prima di venire qui a Barrique. Che percorso è stato il tuo?

Quando arrivai a Capri grazie a Marchesi, che mi ha insegnato moltissimo, non conoscevo ancora veramente la cucina italiana e solo grazie a questa esperienza ho iniziato davvero ad approcciarmi alla vostra tradizione, alle materie prime e ai prodotti. Dopo l’avventura caprese sono tornato a Monaco dove, divenuto chef all’Acquerello, sentivo di avere una maggior padronanza della cucina italiana. A Roma è stata una grande sfida a livello lavorativo e personale, poi qui a Monte Porzio, in aperta campagna, mi sono avvicinato maggiormente alla materia prima. Riesco a trovare soprattutto in frutta e verdura prodotti davvero a chilometro zero e di grande qualità.

Che ricordo hai di Marchesi e dei tuoi primi momenti con la nostra cucina?

Marchesi era un grande signore, sia in cucina che fuori. Insegnava prima di tutto il rispetto verso la materia prima: per lui la cosa importante era il gusto di un piatto e questo è stato uno dei primi insegnamenti che ho fatto miei. Innanzitutto una ricetta deve essere buona, l’aspetto estetico, per quanto importante, viene in secondo piano.

_Un aneddoto dei tuoi primi giorni in Italia?
_

Ricordo che quando giunsi a Capri e vidi arrivare per la prima volta frutta e verdura le snobbavo un po’ per il loro aspetto: erano tutte sporche, di grandezza differente e misure diverse. Assaggiandole però ho capito la vera differenza, e di come dovesse essere veramente il sapore. Niente a che vedere, per esempio, con le materie prime che trovavo in Germania: belle, tutte uguali, pulite ma dal sapore più debole. Questo mi ha fatto innamorare delle vostre materie prime. La semplicità e la territorialità vincono sempre.

Cosa ti ha colpito maggiormente quando ti sei avvicinato alla nostra cucina?

Sicuramente ho iniziato a vedere i prodotti con occhi diversi, sotto un altro punto di vista. Un conto è nascere in Italia, quindi essere “abituati” a mangiare prodotti buoni, un conto è arrivare qui “abituati” alla cucina straniera. Io, per esempio, il primo pomodoro buono l’ho mangiato qui da voi e la felicità di poter utilizzare materie prime di questa qualità è stata davvero grande. Fuori dall’Italia, come dicevo, non è scontato utilizzare ingredienti di tale livello. Qui da voi si mangia bene praticamente ovunque, dalle trattorie al ristorante d’alta cucina. La porchetta di Ariccia, il caffè di Napoli… sono cose che al di fuori del loro territorio non si possono replicare. L’Italia è l’Italia.

Sei uno dei grandi rappresentati dell’alta cucina contemporanea. Noti anche tu una sorta di diffidenza, quasi un timore, da parte delle persone e dei potenziali clienti a sperimentare questo tipo di cucina?

Sicuramente esiste questa barriera, ma quello che mi sento di dire alle persone è di andare nei ristoranti di alta cucina, provare direttamente una simile esperienza per farsi un’idea precisa di cosa rappresenta, e di cosa offre, questo mondo. Io son convinto che dal mio tavolo nessuno si è mai alzato con la fame. Le porzioni piccole sono solo un lato della medaglia, perché dall’altra parte i piatti sono inseriti in un menu degustazione che, nella sua interezza, dall’amuse-bouche alla piccola pasticceria, ti porta alla sazietà. È sicuramente un modo di mangiare diverso ma questo non deve spaventare. Il concetto attorno al quale ruota tutto, certamente, non è quello dell’abbuffata.

Questa visione un po’ male interpretata che c’è dell’alta cucina è anche il risultato di alcuni programmi tv?

La televisione per un verso è stata una cosa positiva ma dall’altra parte non ha creato un’immagine esatta di questo mondo. Parlo anche di chi sogna di diventare chef, e che pensa che basti partecipare o vincere un programma in tv per considerarsi già arrivato. Chef si diventa dopo anni, decenni, di gavetta, sudore e lavoro. Prima bisogna imparare, assorbire gli insegnamenti, apprendere da tutto quello che si vede o si legge. Bisogna creare uno stile proprio, che possa essere riconoscibile; solo così ci si può considerare chef.

Tu sei in Italia da 20 anni e sei sempre stato inserito in questo mondo. Come vedi cambiata l’alta ristorazione da inizi anni 2000 a oggi?

Credo si stia tornando verso la tradizione. Sono passate molte mode e tanti chef ne sono stati anche influenzati, ma penso che ora ci sia un ritorno quasi alle origini, alla tradizione appunto, e secondo me è la strada giusta. Ci sarà un motivo per il quale alcune ricette resistono da decine e decine di anni, alcune anche centinaia, mentre altre hanno vita molto breve. Poi un piatto può essere modificato e interpretato secondo il proprio stile, ma per me bisogna sempre tenere un piede in quella che è la storia del piatto stesso e la sua territorialità.

Anche così sono nate le Eliche Cacio e Pepe, uno dei tuo piatti più rappresentativi?

Esatto. Io amo le cucine tradizionali ed è quindi fondamentale non perdere il percorso che ci lega alla tradizione. L’innovazione deve sempre tener conto della storia gastronomica del posto. Le Eliche Cacio e Pepe, uno dei miei piatti iconici, sono nate anche così: ho voluto combinare la tradizione romana con quella di Capri, e una ricetta nata quasi per gioco è diventato un signature dish.

Per chiudere, che progetti hai per il futuro?

Portare avanti la mia cucina, cercare sempre di essere curioso e non sentirmi mai arrivato. Magari proverò altri prodotti, altri piatti, l’importante è non rilassarsi o sedersi sugli allori. Poi cosa porterà il futuro si vedrà.

Foto di Officina Visiva

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Intervista uscita precedentemente su checucino.it